Privatizzazioni/Liberalizzazioni

Sequenza degli articoli:

  • INTRODUZIONE: Privatizzazioni & liberalizzazioni in sintesi.
  1. SWICH  DA PUBBLICO A PRIVATO.
  2. IL GRANDE BLUFF DELLE PRIVATIZZAZIONI-LIBERALIZZAZIONI DEI PUBBLICI SERVIZI (spiegato con l’esempio del corpo umano e del sangue).
  3. DIFFERENZA TRA BENI SERVIZI PRIMARI E BENI SERVIZI COMMERCIALI.
  4. DIFFERENZA TRA PREZZI E TARIFFE.
  5. UNO STATO PRIMA SPENDE E POI TASSA: FANNO SEMBRARE I SERVIZI PUBBLICI COME UN MENO, MENTRE INVECE SONO PIU’.
  6. AUTOSTRADE SPA: PER QUELLI CHE “PRIVATO E’ MEGLIO, E PUBBLICO E’ BRUTTO”.
  7. IL FUNZIONARIO OSCURO che fece paura a Helmut Kohl e si oppose alla svendita italiana.
  8. L’ITALIA CONTINUA PER LA STRADA DELLE PRIVATIZZAZIONI MA RISCHIA UNA ULTERIORE MARGINALIZZAZIONE DELLA PROPRIA ECONOMIA (a cura di “GEOPOLITICA – Rivista dell’istituto di altri studi in geopolitica e scienze ausiliarie“).
  9. LA DISTRUZIONE DELLO STATO SOCIALE ATTRAVERSO LA CATASTROFE DELLE LIBERALIZZAZIONI – PRIVATIZZAZIONI IN ITALIA (a cura di “MoviSol“).

 

 

INTRODUZIONE: Privatizzazioni & liberalizzazioni in sintesi.

1% vs. 99%.

  • Il modello economico MERCATISTA NeoLiberista mette i servizi pubblici e le infrastrutture pubbliche nelle mani del MERCATO, e accentra le ricchezze ed i poteri nelle mani dell’1%.
  • Il modello economico UMANISTA PostKeynesiano mette i servizi pubblici e le infrastrutture pubbliche nelle mani dello STATO, e distribuisce le ricchezze ed i poteri nelle mani dell’99%.

NON esiste l’economia giusta, ma l’economia a favore di:

  • Le manovre economiche RESTRITTIVE NeoLiberiste fanno accentrare i soldi nelle tasche dell’1%.
  • Le manovre economiche ESPANSIVE PostKeynesiane fanno distribuire i soldi nelle tasche del 99%.

NON viceversa.

 

 

1) SWICH  DA PUBBLICO A PRIVATO.

LE MANOVRE RESTRITTIVE RENDONO I SERVIZI PUBBLICI INSUFFICIENTI/INEFFICIENTI, E COSTRINGONO GLI STATI A PRIVATIZZARSELI.

Nel mondo occidentale moderno post-seconda guerra mondiale, tutti i servizi primari sono stati tutti resi servizi pubblici gestiti dagli Stati.
La partita che si sta giocando in epoca contemporanea verte sul favorire uno swich dei servizi pubblici primari da pubblici a privati per mezzo delle liberalizzazioni e privatizzazioni.
Per ottenere questo risultato si sta progressivamente alimentando un vuoto sempre più ampio nel servizio pubblico che viene opportunamente colmato col servizio privato.
Ponetevi una domanda:
Chi mai andrebbe a fare una visita sanitaria privata a pagamento nel momento in cui la stessa visita fosse elargita dal SistemaSanitarioNazionale in tempi ragionevoli?
Ovviamente nessuno.
Quindi per obbligare gli utenti ad usufruire del servizio privato, è necessario creare un vuoto nel servizio pubblico che lo renda via via sempre più insufficiente.
Il modo principale per rendere il servizio pubblico insufficiente sono i tagli.
I beneficiari di tutto ciò sono sempre i MercatiFinanziari.
Infatti:
Chi è che prescrive agli Stati a suon di attacchi allo spread le riforme di privatizzazione e liberalizzazione dei ServiziPubblici?
La risposta è: I MercatiFinanziari.
E chi è che beneficia delle acquisizioni scaturite dalle suddette riforme di privatizzazione e liberalizzazione?
La risposta è: sempre i MercatiFinanziari, i quali una volta entrati in possesso dei ServiziPubblici primari, li risomministrano alla nazione medesima a regime di libero mercato deregolamentato.

Scritto da: Cristian Minerva

 

 

2) IL GRANDE BLUFF DELLE PRIVATIZZAZIONI-LIBERALIZZAZIONI DEI PUBBLICI SERVIZI (spiegato con l’esempio del corpo umano e del sangue).

PRIMA TI TOLGONO IL SANGUE RENDENDOLO INSUFFICIENTE, E POI TI DICONO CHE BISOGNA RIDURRE LA DIMENSIONE DEGLI ORGANI.

Immaginate che una persona malata di anoressia manifesti una conclamata insufficienza saguigna.
Immaginate che a causa dell’insufficienza sanguigna gli organi interni del corpo (fegato, reni, polmoni, ecc) si ritrovino a funzionare male e a deperirsi.
Immaginate che questa persona necessiti evidentemente di una immediata trasfusione aggiuntiva di sangue.
Ora immaginate che invece della trasfusione di sangue aggiuntiva, il dottore prescriva clamorosamente una riduzione e asportazione degli organi interni con la seguente argomentazione:

DOTTORE: “Il problema della carenza di sangue è dovuto al fatto che gli organi interni, fegato, reni, polmoni, ecc, sono tropo grossi e assorbono troppo sangue, e dunque bisogna ridurre le loro dimensioni fino ad asportarli..”

Domanda:
NON vi verrebbe il sospetto che il dottore stia compromettendo l’auto-sufficienza del paziente per renderlo dipendente da nuovi organi fornitigli in affitto?
E se la risposta fosse si:
Siete complottisti?!
Ecco:
Questo appena descritto è esattamente ciò che accade all’Italia quando in seguito alle ripetute menovre restrittive fatte di tagli su tagli, i vari servizi pubblici italiani (sanità, scuola, trasporti, infrastrutture, ecc) si ritrovano ad essere sempre più insufficienti e inefficienti.

RISULTATO:
Gli organi interni vengono ridotti fino alla loro totale cessione nelle mani degli acquirenti privati che poi sono gli stessi dottori che stavano prescrivendo le cure restittive (MercatiFinanziari).
Una volta espiantati, gli stessi organi saranno infine reintrodotti nel corpo sotto forma però di affitto che dovrà essere pagato alle multinazionali beneficiarie delle privatizzazioni-liberalizzazioni dei pubblici servizi.

CONCLUSIONE:
Uno Stato che si ritrovi in una conclamata crisi recessiva/deflattiva deve rigorosamente compiere politiche economiche espansive, e NON restrittive.
I soldi necessari, se mancano, devono essere rigorosamente forniti dalla BC nazionale.
Che la sovranità appartenga al popolo e NON ai mercati finanziari, è scritto nero su bianco nel primo articolo della nostra Cost.

 

Scritto da: Cristian Minerva.

 

 

3) DIFFERENZA TRA BENI SERVIZI PRIMARI E BENI SERVIZI COMMERCIALI.

NON SONO LA STESSA COSA.

i beni servizi PRIMARI sono quelli necessari per sopravvivere tipo acqua sanità energia eccetera
I beni servizi COMMERCIALI sono quelli accessori tipo abbigliamento elettronica

Vendere le borse di Prada o le scarpe di Gucci non è come prendere l’acqua o la sanità.

La differenza è assoluta:

I beni e servizi COMMERCIALI rispondono alla legge del mercato
I beni e servizi PRIMARI no.

Questa è la ragione per cui dopo la sciagura delle 2 guerre mondiali si è arrivati a capire e decidere di sottrarre i beni e servizi primari dal mercato per somministrarli a regime di monopolio pubblico.

Scritto da: Cristian Minerva

 

 

4) DIFFERENZA TRA PREZZI E TARIFFE.

I PREZZI SAREBBERO PER I BENI/SERVIZI COMMERCIALI, LE TARIFFE PER QUELLI PRIMARI.

Il PREZZO scaturisce dall’incontro tra domanda e offerta.
La TARIFFA è un valore NON suscettibile di variazioni di mercato che viene fissato a regime di monopolio da una autorità.

La tariffa a regime di monopolio è la formula che dovrebbe essere utilizzata per tutti i beni e servizi PRIMARI.
Mediante la tariffa infatti lo Stato è in grado di perseguire 2 risultati:
1) Si evitano le speculazioni (giacché il bene primario in quanto tale può essere comprato/venduto a qualsiasi prezzo).
2) Col monopolio lo Stato può rendere accessibile il servizio a tutti intervenendo con le sovvenzioni (significa che una parte del servizio la paga l’utente, l’altra parte lo Stato).

ESEMPIO PER CAPIRE MEGLIO:

I trasporti pubblici sono offerti a TARIFFA.
Nel caso dell’ATM la TARIFFA è in aggiunta sovvenzionata.
Attualmente la sovvenzione è a circa il 50%.
Significa che quando compriamo un biglietto dell’ATM a 2Euro, NON stiamo pagando un prezzo intero ma solo una frazione ovvero il 50%, perché l’altro 50% lo paga lo Stato.
I TAXI sono anch’essi a tariffa, ma in questo caso NON godono di alcuna sovvenzione.
Per rendere i taxi accessibili il governo potrebbe intervenire con una sovvenzione, e il prezzo del TAXI scenderebbe arbitrariamente in misura pari al valore della sovvenzione; se per esempio fosse al 50% il TAXI costerebbe la metà.

Scritto da: Cristian Minerva

 

 

5) UNO STATO PRIMA SPENDE E POI TASSA: FANNO SEMBRARE I SERVIZI PUBBLICI COME UN MENO, MENTRE INVECE SONO PIU’.

I SERVIZI PUBBLICI NON SONO UN COSTO, MA SONO UNA RISORSA.

È luogo comune identificare i servizi pubblici come un costo, come un peso che grava sulle nostre spalle/tasche del quale bisogna assolutamente liberarsi al più presto, al motto dei soliti slogan liberisti del tipo:
“Non ce lo possiamo permettere, meglio privatizzare”.
“Non possiamo continuare a vivere al di sopra delle nostre possibilità”.
“Privato è meglio, e pubblico è brutto”.
“Privato è più efficiente di pubblico”.

Ed altri….
Questa chiave di lettura fa leva sull’assunto neoliberista che lo Stato, esattamente come fanno aziende e famiglie in MICROeconomia, prima raccoglie i soldi con le entrate , e solo dopo può sostenere le sue uscite, ovvero:
⁃ Prima tassa e poi spende.
Ma questo è falso (vedi pag. “Manovre economiche“).
Lo Stato infatti opera in MACROeconomia e non in MICROeconomia.
In MICROeconomia gli utenti della moneta operano col fine di ottenere i soldi, mentre in MACROeconomia il gestore della moneta opera col fine di fornire i soldi.
Esattamente come i ruoli contrapposti del Banco e dei Giocatori nel gioco del Monopoli:
Da una parte il Banco fornisce i soldi, dal’altra i giocatori li prendono.
L’azione economica ne risulta dunque rovesciata.
Significa che lo Stato deve prima distribuire i suoi soldi e solo in seguito li potrà ritirare:
⁃ Prima spende e poi tassa.
Non viceversa!
Come si può ben intuire, cambia tutto.
Si segua il seguente schema:
Ci viene raccontato che se lo Stato raccoglie 90 di tasse ma poi spende 100 per servizi pubblici, ecco che ci dicono che siamo in “rosso” di 10, un bel -10 di debito pubblico.
Da qui la credenza che i servizi pubblici siano un costo che grava sulle nostre tasche, e per questo preferiamo disfarcene.
Invece nella realtà accade il contrario, ovvero:
Quando lo Stato spende 100 per servizi e poi ritira 90 in tasse, possiamo osservare che lo Stato sta espandendo la sua economia di 10, e non restringendola come ci fanno credere i liberisti impostori (non a caso si chiamano politiche espansive), un bel +10 di risparmi privati, oltre che di PIL (vedi “Pillola Economica“), il che sta a significare che l’economia è in “verde” di 10, e non in “rosso” come ci fanno ingannevolmente intendere.
E questo , si badi, vale per tutta la spesa pubblica in genere, sanità , istruzione, giustizia, trasporti, telecomunicazioni, energia , pensioni, amministrazione pubblica (casta e sprechi compresi), ecc.
La spesa pubblica e sempre un più nell’economia , come anche confermato dalla stessa formula del PIL che ricordiamo essere:

PIL: Consumi + Investimenti + Spesa pubblica + diff. Import-Export.

Ma è anche facile intuirlo utilizzando lo stesso buon senso.
Infatti…
Alla luce del fatto che uno Stato prima spende e poi tassa, provate a mettere a confronto le 2 opzioni:

  1. – Lo Stato aumenta le pensioni , gli stipendi , i posti di lavoro, aumenta le spese per tutti i servizi, sanità , istruzione, trasporti , energia, giustizia, telecomunicazioni, ecc…
  2. – Lo Stato riduce le pensioni, gli stipendi, i posti di lavoro, diminuisce le spese per tutti i servizi, sanità, istruzione, trasporti, energia, giustizia, telecomunicazioni, ecc…

Secondo voi, in quale delle 2 opzioni l’economia dal punto di vista dei cittadini si espande e migliora ?
E in quale si restringe e peggiora ?
La risposta è inequivocabile.

Scritto da: Cristian Minerva.

 

 

6) AUTOSTRADE SPA: PER QUELLI CHE “PRIVATO E’ MEGLIO, E PUBBLICO E’ BRUTTO”.

PONTE MORANDI: LA DIMOSTRAZIONE EMBLEMATICA DEI RISULTATI DEL NEOLIBERISMO SUI SERVIZI PUBBLICI.

Quante volte abbiamo sentito la solita predica che:
“Privato è meglio del pubblico”,
“il privato gestisce meglio e spende meno”,
“i servizi pubblici sono un peso per lo Stato che non ci possiamo permettere”,
ecc. ecc.
Tutto ciò fa leva sul solito dogma liberista che uno Stato si comporta come una azienda o un buon padre di famiglia.
Ebbene:
Come già spiegato anche nelle pillole della Homepage, uno Stato non solo non si comporta come una azienda o un buon padre di famiglia (i quali come sappiamo devono realizzare attivo di bilancio per incrementare le proprie risorse finanziarie), ma addirittura si deve comportare all’esatto opposto, ovvero, lo Stato per aumentare le risorse finanziarie nella sua economia deve realizzare un passivo di bilancio compiendo quelle  che si chiamano politiche espansive.
Quando lo Stato va in attivo (politiche restrittive), le risorse finanziarie nella sua economia diminuiscono.
Se poi consideriamo che ci sono dei servizi pubblici come ad esempio le autostrade piuttosto che l’acqua, che per loro natura sono anche predisposti a produrre profitto, a maggior ragione non è bene (anzi è malissimo) mettere nelle mani di un privato un privilegio del genere perchè si tratta di pura speculazione al 100% (tra l’altro non si capisce come sia possibile che la speculazione non sia rigorosamente bandita dalla legge).
E poi a che pro?
Per convenienza?
E di chi, nostra?
Ma quando mai!
Come si può pensare che un servizio gestito da un privato possa costare meno rispetto a quello gestito dallo Stato, se il privato a differenza dello Stato deve caricare il prezzo con l’aggiunta del suo profitto?
Lo Stato come detto, non solo può offrire il servizio a prezzo di costo, ma perfino in perdita visto che il passivo del settore pubblico è l’attivo di quello privato (ripetiamo con insistenza: I deficit di bilancio pubblici sono politiche espansive che incrementano i risparmi privati nelle tasche di tutti quanti noi).
Anche la faccenda della maggiore efficienza è una favoletta per sprovveduti poichè i fatti ormai sono dimostrati e sotto gli occhi di tutti.
Il ponte Morandi è uno degli esempi più emblematici.
Con la tragedia del ponte Morandi la farsa del dogma liberista dove viene predicato che il mercato garantisce il corretto funzionamento dell’economia, è dimostrata nella maniera più chiara possibile.
Se da una parte infatti si è visto che il privato si intasca i soldi per l’eventuale manutenzione come profitto, dall’altra lo Stato non può neanche lui spendere soldi per la manutenzione perchè lo schema liberista impone allo Stato di ridurre costantemente la sua spesa (taglio che tra l’altro come abbiamo visto poi manda in recessione il PIL così che il debito pubblico si espande per via degli interessi).
Senza contare il fatto che nel sistema liberista dei servizi privatizzati, lo Stato si ritrova a sostenere le sue spese senza la compensazione dei profitti perchè quelli se li intasca il privato che ha ottenuto la concessione.
Ma di che stiamo parlando?
I servizi pubblici non sono in alcun modo da considerare come un qualsiasi bene di consumo commerciale, e per la loro importanza fondamentale e strategica devono rigorosamente restare nelle mani dello Stato sotto il controllo democratico.
Si tratta infatti di quelli che vengono considerati come gli asset strategici di una nazione.
Le telecomunicazioni, l’energia, i trasporti, le poste, la sanità, ecc. , non sono beni come i televisori, le scarpe, le borse, l’arredamento e quant’altro, e non rispondono alla legge del mercato della domanda e dell’offerta come i convenzionali prodotti di consumo commerciale (ragione per cui i servizi di pubblica necessità sono sempre stati tenuti fuori dal mercato e sottoposti ad economia amministrata-tutelata).
L’Italia è stata costretta a disfarsi dei suoi asset strategici da che fu decisa la faccenda nella famosa assemblea del BRITANNIA che si tenne nei ’92 (si legga 1992 OPERAZIONE BRITANNIA nella pag EVENTI STORICI della sez QUADRO STORICO).
Sul Britannia la finanza internazionale (quella rispondente ai grossi potentati dell’asse Atlantico) insieme agli esponenti della futura seconda repubblica che da li a breve sarebbe stata istituita nel nostro paese, fu stabilito che l’Italia si sarebbe dovuta fare la “messa in piega” (pronunciando testuali parole), e così fu.
Autostrade fu acquistata dai Benetton nel ’99 con delle concessioni che sono state perfino segretate.
Come autostrade, anche altri importanti asset furono sottratti dalle mani dello Stato per essere messi nelle mani dei privati: Telecomunicazioni, banche (fondamentalissime), energia, ecc..
Voi pensate che i nostri partner-competitors (quelli dell’asse atlantico) hanno privatizzato anche loro?
Ma neanche per sogno!
Germania e Francia (giusto per citarne 2 a caso) sono rimaste saldamente in possesso dei loro asset (specie le banche, ma anche ovviamente autostrade), mentre a noi veniva intimata la privatizzazione.
E quindi ora come si fa?
Semplice:
Si Nazionalizza.
Mediante l’esproprio.
Art. 43 cost.
Lo Stato lo può fare: con le Autostrade, così come con tutti gli altri asset strategici di pubblico interesse.
E chiunque vi dice che non è possibile perchè ci sono clausole contrattuali (di qualsiasi natura essi siano), o è un incompetente, oppure è un impostore in malafede che mente spudoratamente (vedi intervento avv. Marco Mori, link video AVV. MARCO MORI: “NESSUNA PENALE SE CI RIPRENDIAMO LE AUTOSTRADE!“).

Scritto da: Cristian Minerva

 

 

7) IL FUNZIONARIO OSCURO che fece paura a Helmut Kohl e si oppose alla svendita italiana.

TESTIMONIANZA DELL’EX FUNZIONARIO NINO GALLONI

Dal video su YouTube, estratto dal min.19:05

NINO GALLONI:  “Nel 1982/83 io ero funzionario del Ministero del Bilancio e feci uno studio.
Lo feci vedere al Ministro, facendogli presente che questo sistema (Nota Bene:   Il sistema in questione a cui si riferisce Nino Galloni, è quello scaturito in seguito al “DIVORZIO TRA TESORO E BANCA D’ITALIA” dell’81 in cui lo Stato Italiano perse il potere di controllo dei tassi d’interesse sui propri titoli di Stato, tassi di interesse che, una volta in balìa delle logiche del mercato e dei profitti, aumentarono sconsideratamente provocando l’aumento incontrollato del volume del DEBITO PUBBLICO stesso negli anni a seguire con la conseguente “esplosione” dei nostri RISPARMI PRIVATI [N.d.a.]), avrebbe rovinato il Paese perché il debito pubblico, nel giro di 5/6 anni, avrebbe superato il prodotto interno lordo, e la disoccupazione giovanile avrebbe superato il 50%.
Ne parlai anche col Ministro del Tesoro, che era Beniamino Andreatta, e con alcuni dell’ufficio studi della Banca d’Italia.
Tutti quanti concordarono sul fatto che la mia analisi era esagerata e che non era possibile che il debito pubblico superasse il PIL, perché allora il sistema sarebbe saltato.
E io dissi: scusate, se il debito è un fondo e il PIL è un flusso, non c’è nessun problema.
Se io oggi, per farvi un esempio, con 50mila euro di reddito della mia famiglia vado a chiedere un prestito di 200, 250mila euro alla banca, me lo danno.
Quindi anche un rapporto di 4/5 volte rispetto al PIL è sostenibile.
Se è sostenibile per una famiglia, che tutto sommato non ha la forza di uno Stato, perché uno Stato, se supera il 100% del PIL, dovrebbe vivere chissà quali catastrofi?
Allora dissero che le preoccupazioni sulla disoccupazione giovanile erano esagerate…
Insomma: litigammo, me ne andai dall’amministrazione e andai a fare altri lavori.

Nel 1989 ebbi uno scambio con l’allora incaricato Presidente del Consiglio che era Giulio Andreotti, il quale mi disse:
“Dobbiamo cambiare l’economia italiana perché così non può andare avanti, ci dia una mano”.
Io mi misi a disposizione e mi fecero incontrare con il suo braccio destro il quale, come è noto, mi chiese :
“Che cosa devo fare per cambiare l’economia di questo Paese”?
Dissi:
“Guardi, lei si faccia nominare dal prossimo Governo al Ministero del Bilancio e mi metta in mano tutta la struttura. Al resto ci penso io”.
Poi me ne andai, pensando insomma che non sarebbe successo niente.
E invece mi chiamò, dopo qualche settimana, e mi disse: “Guardi, sono Ministro del Bilancio” e mi mise a capo di tutta la struttura.
Per cui io, nell’autunno del 1989 cominciai a cambiare l’economia di questo Paese.
Nel senso perlomeno di rallentare il processo dell’Europa. Poi io ho avuto la buona scuola di Federico Caffè.. non ero un euroscettico, però non ero neanche un euroestremista. Insomma, pensavo che l’Italia dovesse anche guardare all’Europa, ma con i suoi tempi, le sue caratteristiche, le sue peculiarità, per cercare di recuperare un po’ di sovranità monetaria etc.

In effetti io lì lavorai due o tre mesi e poi successe l’inferno.
Arrivarono al Ministro del Tesoro, Giulio Carli, telefonate dalla Banca d’Italia, dalla Fondazione Agnelli, dalla Confindustria e, nientedimeno, da un certo Helmut Kohl, il quale era venuto a sapere che c’era questo oscuro funzionario del Ministero del Bilancio che stava cambiando le carte degli accordi.
Nel frattempo, però, lo stesso Andreotti stava cambiando idea.
Quando mi chiamò, nell’estate dell’89, volevano cambiare.
Non volevano fare quello che poi fu fatto.
Lui stesso andava in giro dicendo che le rivendicazioni della Germania erano una sciocchezza.
Dopo qualche mese ci fu l’accordo tra Kohl e Mitterrand in cui Kohl, in cambio dell’appoggio di Mitterrand per la riunificazione tedesca, rinunciava al marco e quindi accettava la prospettiva dell’euro, accettava cioè di arrivare a una moneta comune che proteggesse la Francia.
Ma quest’accordo prevedeva anche la DEINDUSTRIALIZZAZIONE DELL’ITALIA. Perché se l’Italia si manteneva così forte dal punto di vista produttivo – industriale, quell’accordo tra Kohl e Mitterrand sarebbe rimasto un accordo così, per modo di dire.
C’erano fondamentalmente, contro la spesa pubblica, contro la classe politica del tempo, contro la sovranità monetaria – per quello che comporta – due correnti.
– Una era interessata soprattutto ai GRANDI BUSINESS DELLE PRIVATIZZAZIONI E DELLE LIBERALIZZAZIONI.
Hanno guadagnato distruggendo l’industria pubblica: c’erano aziende che venivano vendute al loro valore di magazzino, e quindi come andavano in borsa ovviamente alzavano la loro quotazione.
– Poi c’erano gli altri, che erano magari in buona fede, cioè avevano l’obiettivo di moralizzare il Paese.
E hanno sbagliato.
In entrambi i casi la contropartita è stata negativa: abbiamo perso quel’abbrivio strategico che avevamo nell’ambito della nostra industria.
Quindi in sostanza la nostra classe dirigente ha accettato una prospettiva di deindustrializzazione del nostro Paese.”

Fonte:  LINK VIDEO www.youtube.com/watch?v=t_ssGy0LXo0.

 

 

8) L’ITALIA CONTINUA PER LA STRADA DELLE PRIVATIZZAZIONI MA RISCHIA UNA ULTERIORE MARGINALIZZAZIONE DELLA PROPRIA ECONOMIA.

Dal sito “GEOPOLITICA – Rivista dell’istituto di altri studi in geopolitica e scienze ausiliarie”.

20/12/2013, di Enrico Ferrini.

Nonostante le esperienze negative del passato ed in controtendenza rispetto ai paesi che meglio avanzano nel mezzo della crisi, la privatizzazione delle attività pubbliche torna ad essere considerata strumento utile per l’economia nazionale.

Far passare l’idea che il problema risieda nell’eccessivo indebitamento pubblico e non nell’esplosione di quello privato, soprattutto finanziario, come ammesso dal vice-presidente della Bce Vítor Constâncio, è funzionale all’imposizione di ricette economiche controproducenti che bloccano ogni tipo di spesa pubblica, anche produttiva, su parametri fissati senza un chiaro criterio economico e screditate dall’esperienza neoliberista degli ultimi decenni.

Queste politiche non sono infatti una novità ma riflettono esattamente l’approccio utilizzato dal FMI negli anni ’90 sulla base di quella ideologia neoliberista che va sotto il nome di Washington Consensus e che imponeva ai paesi in via di sviluppo riforme che non solo inasprirono la crisi attraverso tagli e privatizzazioni ma, come denuncia il Nobel Stiglitz, ne determinarono significativamente l’inizio attraverso la liberalizzazione selvaggia dei loro mercati. Queste direttive rispondevano all’esigenza dei capitali internazionali di trovare nuovi mercati ad alto rendimento e gli stessi piani di salvataggio che seguirono allo scoppio delle bolle generatesi furono impiegati per ripagare i debiti contratti con banche ed istituzioni occidentali.

Le privatizzazioni erano parte integrante di queste prescrizioni e dall’America Latina alla Russia produssero effetti disastrosi sulle rispettive economie. Oggi, come mostrano i casi di Spagna, Grecia e Portogallo, l’Europa sta commettendo gli stessi errori adottando quelle stesse politiche depressive.

Il Portogallo ha messo in vendita tutte le aziende chiave del paese: la gestione aeroporti, la rete elettrica Edp, i cantieri navali, la compagnia aerea di bandiera, la televisione pubblica e le lotterie dello stato. Sono in studio la privatizzazione delle poste e possibilmente del settore bancario ancora in mano pubblica.

In Spagna le privatizzazioni riguardano le telecomunicazioni, la compagnia aerea di bandiera, i porti, gli aeroporti, la modernissima rete di treni ad alta velocità, settori della sanità pubblica, la gestione delle risorse idriche e le lotterie dello stato. Anche la Grecia è stata naturalmente esortata ad accelerare il processo di privatizzazione dei beni e servizi pubblici come condizione per l’ottenimento dei fondi europei. In quello che è stato definito come il più grande programma di cessioni pubbliche della storia si ritrovano le società pubbliche del gas e dell’elettricità, le lotterie e le scommesse sul calcio, il sistema di difesa ellenico, la Hellenic Petroleum, il servizio idrico di Atene (EYDAP) e di Thessalonica (EYATH), la compagnia mineraria e metallurgica (LARCO), le poste, le ferrovie, i porti, l’aeroporto di Atene, le autostrade e vari immobili storici e governativi. Una totale spoliazione.

I proventi del programma di privatizzazione sono poi impiegati per la riduzione delle posizioni debitorie che spesso fanno riferimento a quei paesi o banche che beneficiano direttamente delle privatizzazioni. Un esempio indicativo potrebbe essere quanto avvenuto in Brasile nel 1990 quando Citi Group acquistò importanti beni dello Stato nel settore minerario e forestale. I proventi relativi ai beni venduti sono tornati a Citi Group per ridurre il debito in essere, essendo questa la maggiore creditrice estera del paese sud americano.

Sotto gli auspici della commissione europea, che ha finora negato anche la possibilità di scontare gli investimenti per la crescita dal calcolo del deficit, anche l’Italia si appresta a varare un primo piano di dismissioni pubbliche da 10-12 miliardi da destinare per la metà alla riduzione del debito pubblico che a fine settembre è risalito a 2.068,565 miliardi di euro; operazione inutile e controintuitiva che ricorre alla vendita di partecipazioni strategiche e redditizie come Eni, Sace, Grandi Stazioni, Enav, Stm, Fincantieri, Cdp Reti ed il gasdotto Tag, solo per guadagnare tempo.

Alcuni sottolineano come la burocrazia che governa l’Europa odierna, oltre a rispondere principalmente agli interessi dei paesi forti dell’area con la tendenza a marginalizzare i paesi periferici inclusa l’Italia, sia particolarmente asservita ai grandi potentati economici e finanziari, proseguendo quindi quel processo di estromissione dello Stato dalla gestione dell’economia e di progressiva riduzione della sovranità nazionale in favore di organismi sovranazionali i cui principali referenti sono le stesse multinazionali e lobbies finanziarie.

Sappiamo che il drastico incremento del debito pubblico avvenuto durante la crisi è stato prodotto direttamente o indirettamente dalla socializzazione delle perdite del settore finanziario, effettuata fra l’altro senza imporre una opportuna regolamentazione dello stesso. Le misure di austerità richieste per rientrare nel Fiscal Compact e la costituzione del Fondo Salva Stati andranno inesorabilmente ad accelerare questo shift pubblico-privato, con la nota “ironica” secondo cui i fondi impiegati per il salvataggio del settore bancario potrebbero adesso servire ad acquistare proprietà pubbliche.

L’accettazione incondizionata dello SME prima e dell’Euro poi va considerata come una ulteriore causa del nostro declino economico, dato che con l’eliminazione della funzione armonizzatrice degli aggiustamenti dei cambi l’Italia ha visto di molto ridotta la propria competitività registrando crescenti squilibri commerciali che nel tempo hanno alimentato la sua progressiva deindustrializzazione. Dinamica che ha contraddistinto in generale tutti i paesi più deboli aderenti all’area monetaria (GIIPS) a vantaggio di quelli più efficienti, Germania in primis. D’altronde l’agganciamento ad una valuta forte è sempre stato presagio di problemi economici. Argentina docet.

Il masochismo economico che contraddistingue l’Italia nella gestione della crisi riguarda inoltre l’adesione al Meccanismo Europeo di Stabilità (MES). L’Italia ha contribuito con una quota del 18% ai fondi salva stati europei che, con la partecipazione del Fmi, sono stati destinati a Grecia (240Miliardi), Spagna (41Miliardi), Portogallo (78Miliardi) ed Irlanda (67Miliardi). Questi fondi sono andati principalmente a ridurre la posizione debitoria che questi paesi avevano principalmente verso le banche inglesi, tedesche e francesi. Così che l’Italia, in corrispondenza all’esplosione del proprio debito pubblico, ha già versato 11,4 miliardi e si appresta a versarne altrettanti nel 2014 per piani di salvataggio che alla fine serviranno a finanziare paesi che purtroppo vanno ad oggi considerati i nostri principali competitors.

Il debito pubblico in Italia ammonta ad oltre 2 mila miliardi di euro con una durata media di circa 6 anni e mezzo, detenuto al 4,73% dalla Banca d’Italia, al 45,92% da Banche e Istituzioni finanziarie nazionali, al 14,17% da Privati Italiani e infine al 35,18% da investitori esteri. La quota detenuta da questi ultimi è letteralmente crollata rispetto al 60% del 2008 o al 50% del 2010. L’intervento BCE tramite l’acquisto diretto di titoli pubblici ed indirettamente con l’erogazione di 237 mld di fondi Ltro all’1% alle banche italiane su un piano complessivo di oltre 1000 mld a livello europeo, ha di fatto permesso di assorbire questa fuga dal debito italiano impedendo un default del paese. Le banche italiane hanno investito i fondi nei remunerativi titoli di stato la cui quota di detenzione totale è salita dal 41% del 2010 al 46%, sottraendo però in questo modo risorse a sostegno dell’economia reale.

Questa maggiore porzione interna del debito non riduce tuttavia l’esposizione al ricatto dei mercati e l’Italia rimane schiacciata dal macigno degli interessi che si aggirano intorno al 4-5% e pesano per 5,5 punti di Pil, trasformando l’avanzo primario più alto d’Europa in un deficit che appena riesce a rientrare nei paramenti del 3%. Gli sforzi indirizzati alla riduzione della spesa pubblica e alla cessione di attività strategiche, rischiano di andare in fumo di fronte al perdurare di una condizione di totale vulnerabilità rispetto alla speculazione finanziaria.

Tale condizione fu determinante anche nel 1992 quando, subito dopo l’insediamento del governo Amato, l’Italia fu oggetto di un attacco speculativo che portò alla sua espulsione dal Sistema Monetario Europeo (SME) e che ebbe come elementi salienti il declassamento improvviso di Moody’s e la gigantesca vendita allo scoperto effettuata da Soros, sostenuta dalle banche anglosassoni. La svalutazione del 30% che conseguì alla crisi valutaria permise a quelle stesse banche che avevano sostenuto la manovra speculativa (Goldman Sachs, Merrill Lynch, Citicorp, JP Morgan e Solomon Brothers) di portare avanti il piano di privatizzazioni a prezzi decisamente scontati.

Se l’introduzione dell’euro ha scongiurato questo tipo di crisi valutarie, oggi la speculazione si rivolge piuttosto ai titoli del debito pubblico, in buona parte in mano straniera, i quali vengono venduti sui mercati provocando un aumento dello spread e mandando potenzialmente in default il paese, a meno che non ci sia l’intervento della Banca Centrale. È stato proprio con queste modalità che il debito italiano è stato preso di mira facendo schizzare lo spread e portando nel novembre del 2011 alle dimissioni di Berlusconi ed all’insediamento del governo dell’ex commissario europeo Monti.

La lettera di Draghi e Trichet recapitata al governo all’inizio di Agosto 2011 indica chiaramente come la Bce era in grado di dettare il passo all’Italia, dietro il ricatto di un non intervento a sostegno dei titoli di debito del Tesoro. Nella lettera si pone inoltre l’accento sulle privatizzazioni, incitando a farle il più rapidamente possibile. Si scopre solo recentemente dalle rivelazioni di Bini Smaghi e dell’influente economista tedesco Hans-Werner Sinn che Silvio Berlusconi aveva avviato trattative in sede europea per uscire dalla moneta unica.

Le privatizzazioni degli anni Novanta vennero fatte in un contesto di forte instabilità politica e finanziaria, e sotto la matrice ideologica neoliberista della supremazia del privato sul pubblico. Esse furono motivate con la necessità sia di ridurre il debito pubblico per rientrare nei parametri di Maastricht entro il 1999 e poter accedere all’eurozona, sia di dare nuovo impulso all’imprenditorialità privata, soffocata dall’ingombrante presenza pubblica.

Anche in nome di quello che allora poteva sembrare un intento legittimo, cioè di legare le mani ad una classe politica corrotta, l’Italia rinuncia alla sua sovranità monetaria avviandosi in una fase di declino economico e di graduale deindustrializzazione.

Dal 1992 al 1999, nonostante i massicci piani di privatizzazioni messi in atto apportando alle casse statali oltre 178.000 miliardi di lire (il 12,3% del PIL del 1992), il debito pubblico scese soltanto al 113% del Pil (rispetto al record del 121% del 1994), ben al di sopra della soglia del 60% imposta da Maastricht. Naturalmente l’Italia venne ammessa comunque nell’eurozona. Secondo quanto descritto nel report di Graziella Marzi1 l’Italia si colloca al secondo posto dopo il Giappone tra i Paesi dell’Ocse e al primo a livello europeo per valore di introiti derivanti dalla cessione delle imprese pubbliche. Dal 1994 al 31 dicembre 2003 lo Stato ha ceduto quote di proprietà pubblica per un ammontare di quasi 90 mld di euro, rappresentando il 14% delle privatizzazioni mondiali nel 1997, il 15% nel 1999, il 15% del 2001 ed il 34% del 2003.

Per il raggiungimento di obbiettivi economici di breve periodo lo Stato ha rinunciato a entrate future che buona parte delle aziende vendute avrebbe prodotto assicurando così un aumento del deficit nel lungo periodo. Come scrive Marco Bersani nel libro CatasTroika, il 64,8% delle aziende privatizzate apparteneva ai settori bancario assicurativo e delle telecomunicazioni ed erano finanziariamente remunerative già sotto la gestione pubblica. L’urgenza con cui queste sono state portate avanti ha inoltre massimizzato il vantaggio negoziale dei compratori, spesso stranieri.

Anche l’intento dichiarato di liberalizzare i mercati ed aumentarne la competitività si è rivelato vano, dato che in molti casi il modus operandi è stato il mero trasferimento dei monopoli pubblici a privati. Oltre alla mancata attuazione di significativi investimenti, la qualità dei servizi è generalmente andata peggiorando a fronte di un aumento delle tariffe, come nel settore bancario, delle utilities o delle infrastrutture.

La ritirata dello Stato dall’economia e l’abbandono di una politica industriale che era stata il fulcro di un eccezionale sviluppo nel dopoguerra, è stata una delle principali ragioni del declino dell’Italia da quinta potenza industriale nel mondo a paese marginale dell’UE. Ieri come oggi, l’incombenza di rientrare nei parametri imposti dall’Europa crea la necessità di fare cassa rapidamente, inducendo scelte economiche penalizzanti per il paese e che ne accelerano il declino e la marginalizzazione economica.

Nel rapporto sulla competitività industriale presentato dal commissario UE all’Industria Tajani, si sottolinea come “l’Italia sta vivendo una vera deindustrializzazione, con una perdita di 20 punti percentuali nell’indice di produzione industriale rispetto al 2007″. Negli ultimi anni la lista di eccellenti imprese italiane passate sotto il controllo straniero è tristemente lunga2. In Italia le grandi aziende quotate in borsa valgono 353 miliardi e sono per il 40% in mano a stranieri. L’unico comparto che ancora a stento riesce a tenere alte le sorti del manifatturiero italiano è costituito dal sistema delle piccole e medie imprese e dei distretti industriali ad alto contenuto tecnologico, che tuttavia si vedono fortemente penalizzate dalle politiche attuate negli ultimi anni, dalla mancanza di credito e da annose questioni mai risolte di carenze infrastrutturali e servizi costosi ed inefficienti.

L’Agenzia per l’Informazione e la Sicurezza Interna (Servizi Segreti) ha messo poi in guardia dal pericolo di acquisizioni estere del know-how delle nostre aziende specialmente nel settore militare, delle nano-tecnologie e dei materiali speciali.

L’Eni merita una menzione speciale in quanto è sempre stata il fiore all’occhiello dell’industria di un paese assolutamente carente di risorse naturali, sviluppando competenze tecniche e geologiche senza pari al mondo. Controllata dallo Stato al 30,3%, occupa 78.000 persone in 90 Paesi, fa un utile netto di 7.7mld e solo l’anno passato ha fatto investimenti tecnici per 12,8mld di euro, con una previsione di investimenti nei prossimi quattro anni da 47 miliardi di euro. Faro della politica estera italiana è stata protagonista di una sempre più stretta integrazione fra Russia ed Italia entrando nel 2007 al 50% come primo socio con Gazprom nel progetto per la costruzione del gasdotto South Stream (successivamente scende al 20% dopo l’ingresso della francese Edf e la tedesca Wintershall con il 15% ciascuno) e cedendo a Gazprom il 50% della quota detenuta da Eni (33,3%) nel consorzio preposto allo sviluppo del giacimento petrolifero libico di Elephant. La eliminazione di Gheddafi e lo scorporo di SNAM (trasporto gas) hanno parzialmente rallentato il passo di questa intesa. Tuttavia il cane a sei zampe brinda ora alla scoperta di gas in Mozambico (la più grande nella storia del Gruppo e possibilmente una delle maggiori in quella dell’industria petrolifera mondiale) che potrebbe rivelarsi una chiave di volta per la penetrazione dei mercati asiatici.

Lo stesso Bonanni della Cisl a proposito della vendita di una quota di Eni, giustifica tale scelta più nell’interesse straniero a comprare piuttosto che in quello italiano a vendere.
Risulta evidente che rinunciando alle proprie eccellenze ed industrie strategiche e continuando più in generale a devitalizzare il paese con decisioni prese da altri, l’Italia si assicura una ulteriore marginalizzazione sul piano internazionale con il rischio di veder aumentata l’ingerenza straniera nelle questioni interne. L’iniquità con la quale è stata gestita la crisi e l’esclusione dell’Italia nei processi decisionali in sede UE sta portando la pancia del paese su posizioni antieuropeiste nette, quando invece sarebbe più opportuno recuperare sovranità politica per gestire una modifica di queste dinamiche, tenendo conto degli interessi nazionali.

Riavviare una politica industriale di sviluppo accompagnata da una riforma del sistema monetario/finanziario ed attivare una politica estera multipolare che stringa rapporti sempre più stretti con le nuove potenze emergenti e non sia più appiattita su posizione atlantiste, sembrano due fondamentali punti di partenza per aumentare il “potere contrattuale” del paese Italia.

Mariana Mazzucato nel libro Lo Stato imprenditore sottolinea l’assoluta centralità dell’intervento pubblico nella promozione della innovazione scientifica e tecnologica. Questo è stato all’origine dello sviluppo di settori quali internet, biotecnologie, nanotecnologie, energie rinnovabili e altre radicali innovazioni di prodotto. La tecnologia che per esempio rende i telefoni “smart”, da internet all’algoritmo di google, dal Gps al touch screen, è di fatto il frutto di finanziamenti pubblici diretti o indiretti.

Cina e Germania hanno raggiunto risultati eccellenti nell’ambito delle nanotecnologie e delle energie rinnovabili proprio grazie al ruolo giocato dai rispettivi governi. L’intervento statale è stato determinante nel salvataggio di imprese che poi si sono riprese come General Motors e Chrysler, Volkswagen, Alstom, etc.

L’incapacità di riconoscere il ruolo centrale dello stato nel promuovere sviluppo e innovazione rappresenta una minaccia concreta alla prosperità del paese. Il recupero della sovranità nazionale passa anche per la creazione di una nuova classe dirigente in grado di portare avanti una politica industriale nell’interesse nazionale come quella fatta nel dopoguerra. Allora lo stato deteneva partecipazioni nel settore industriale, bancario, minerario, petrolifero, delle infrastrutture, della meccanica e del tessile, in quello termale e cinematografico. Il modello dello Stato “imprenditore” nasceva con l’instaurazione dell’IRI nel 1933 che rilevò i pacchetti azionari detenuti dalle banche fallite, attuando un piano di risanamento delle imprese dissestate. Anche dopo il fascismo il modello IRI continua, diventando un gruppo fortemente diversificato e lo strumento di modernizzazione del paese.

La Germania moderna per esempio ha offerto maggiori resistenze al dogmatismo liberista ed alle ingerenze straniere, con personalità come Karsten Rohwedder che pagarono con la vita per questo. È riuscita a mantenere un modello di forte sostegno pubblico all’economia e continua, come l’Inghilterra, a promuovere importanti collaborazioni e accordi commerciali con Russia, Cina ed India. Ha tutto il potere necessario in sede europea per mantenere e sollecitare una struttura normativa ed economica a lei favorevole. Di fronte all’evidenza che il 69% delle riserve auree tedesche erano detenute fuori dal paese, la Bundesbank ha deciso di rimpatriare parte di quelle detenute alla New York Federal Reserve Bank, una decisione che è stata definita come l’evento monetario più significativo degli ultimi decenni, dai tempi in cui Charles De Gaulle richiese la conversione dei dollari della Francia in oro3.

Tutte le buone intenzioni relative al rilancio della nostra economia devono pero misurarsi di fronte alla necessità di una riforma monetaria/finanziaria che dia allo Stato i mezzi per attuarlo.

A partire dall’assetto quasi completamente privato del sistema bancario, la condizione italiana è nettamente svantaggiosa. Il controllo pubblico delle banche nei primi anni ’90 era al 74,5%, contro il 61,2% della Germania, ed il 36% della Francia4. Dopo le privatizzazioni la proprietà pubblica nelle banche italiane (e indirettamente nella Banca d’Italia) è stata quasi totalmente annullata mentre Germania e Francia hanno mantenuto rispettivamente nel sistema bancario una quota del 52% e 31% (attualmente maggiore [N.d.a]). Alla luce anche della mancata nazionalizzazione del MPS, le implicazioni di questo assetto privato del sistema bancario italiano sono degli oneri sempre più gravosi per lo Stato ed un minore margine di manovra per incentivare lo stimolo dell’economia reale.

Sempre con riferimento ai finanziamenti Ltro all’1% erogati dalla Bce alle banche europee, la Germania a differenza nostra, con oltre la metà del sistema bancario in mani pubbliche, ha potuto beneficiare di questa liquidità a basso costo. Inoltre tutti gli interessi che lo stato paga sui titoli che le banche hanno in pancia, vanno nelle tasche dei privati anziché tornare in parte nelle casse pubbliche.

Il “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia del 1981 che esimeva la seconda dal garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal primo, ha prodotto un aumento esorbitante dei costi di finanziamento dello Stato e quindi del debito pubblico. L’economista belga Bernard Lietaer, ex alto funzionario della Banca Centrale belga esperto di sistemi monetari e moneta complementare, indicato dal Business Week nel 1990 come miglior trader al mondo con il suo fondo, spiega come prendendo prestiti dalla propria banca centrale a interessi zero, si potrebbe consentire ad un governo di ridurre drasticamente il suo debito pubblico. L’esempio è fornito dalla Francia che a seguito della nazionalizzazione della Banca Centrale alla fine della guerra, riuscì ad abbattere il debito pubblico al 21% del Pil permettendo al Ministero del Tesoro di finanziarsi senza interessi dalla Banque de France dal 1946 al 19735. Nel 1973 fu proibita questa pratica e lo Stato poté finanziarsi esclusivamente con il settore privato. Il debito cominciò a salire inesorabilmente fino al 90% circa odierno. La possibilità di rimettere nelle mani dello Stato il diritto di emettere moneta e trasformare le banche in semplici intermediari fa riferimento anche al cosiddetto Chicago Plan, recentemente riportato in auge da un gruppo di analisti del FMI. In controtendenza invece, il recente decreto relativo alla rivalutazione delle quote di Bankitalia a 7.5mld blinda l’assetto privato dell’istituto, aprendo inoltre la strada all’aumento della presenza straniera nel capitale della Banca Centrale, come suggeriscono l’idea dell’imposizione di un tetto massimo del 5% per azionista e della quotazione delle sua azioni.

Sempre Lietaer spiega come l’introduzione di una moneta complementare che coesista insieme all’euro aumenterebbe la flessibilità e la sostenibilità del sistema. La stessa Germania nazista utilizzò l’emissione di obbligazioni di Stato come moneta complementare in coesistenza con il marco per risollevare con successo una economia in ginocchio6 (poi la pratica sfuggì di mano al dittatore ed il banchiere centrale che concepì l’operazione si dimise).

Puntare alla sostenibilità senza una ristrutturazione del nostro sistema monetario e finanziario è un approccio ingenuo e destinato a fallire. La privatizzazione della finanza e della politica monetaria ha prodotto un forte aumento dell’indebitamento pubblico ed ha creato dei mostri finanziari che minano la stabilità dell’economia mondiale. Su 4 trilioni di transazioni giornaliere nel 2010 sui mercati valutari, solamente il 2% si riferiscono al commercio di beni e servizi mentre il resto è speculazione. Circa 600 trilioni è il valore dei derivati in circolazione, 8 volte il Pil mondiale.

Anche la sovranità monetaria e finanziaria non dovrebbe oggi essere più considerata un tabù.

  1. – “Le privatizzazioni in Italia. Il caso Enel” – Graziella Marzi – Università di Milano Bicocca; https://bit.ly/T4bDQV.
  2. – goofynomics.blogspot.it/2013/09/smoke-sales.html . Lista imprese italiane passate sotto il controllo straniero elaborata da Simone Previti; pubblicata. sul blog di A. Bagnai.
  3. – “L’oro come asset strategico in un contesto di guerre valutarie” – Enrico Ferrini; Geopolitica-Rivista, vol. II, no. 1: La crisi finanziaria ed il nuovo ordine economico mondiale.
  4. – Marco Bersani “CatasTroika”.
  5. – issuu.com/onsubject/docs/money_and_sustainability , Money and Sustainability (Club of Rome, 2012).
  6. – Daniele Scalea : E i Bot come moneta complementare per rilanciare l’economia? – Huffingtonpost.

Fonte:  LINK DELL’ARTICOLO ORIGINALE  www.geopolitica-rivista.org/24549/litalia-continua-per-la-strada-delle-privatizzazioni-ma-rischia-una-ulteriore-marginalizzazione-della-propria-economia/.

 

 

9) LA DISTRUZIONE DELLO STATO SOCIALE ATTRAVERSO LA CATASTROFE DELLE LIBERALIZZAZIONI – PRIVATIZZAZIONI IN ITALIA.

DAL SITO MoviSol (Movimento internazionale per i diritti civili-solidarietà).

Premessa: Si tratta di un collage di stralci del’articolo integrale (che trovate qui).

-/-/2009, di Claudio Giudici

Grazie all’analisi di seguito proposta, l’idea per cui le liberalizzazioni e le privatizzazioni portino benefici all’economia, viene totalmente confutata.

Si dimostrerà che:

  1. le liberalizzazioni portano ad un aumento dei prezzi;
  2. le liberalizzazioni portano alla distruzione di posti di lavoro ed all’abbassamento degli stipendi dei lavoratori e dei fatturati delle piccole imprese;
  3. la liberalizzazione-privatizzazione dell’impresa pubblica nel periodo 1992-2000 non è stata conseguenza dell’inefficienza economica;
  4. i processi di liberalizzazione-privatizzazione non hanno minimamente migliorato la capacità produttiva italiana;
  5. le liberalizzazioni favoriscono i concentramenti di capitale in poche ricchissime mani;
  6. il rendimento finanziario delle aziende privatizzate è stato peggiore rispetto alla generalità del mercato finanziario italiano.

Il processo di liberalizzazioni-privatizzazioni prese avvio in Italia nel 1992. La motivazione ufficiale che portò a questa fase di stravolgimento degli assetti proprietari dell’impresa pubblica nazionale fu quella dell’elevato debito pubblico che andava ridotto. A ciò si aggiungeva e si legava, la questione di una maggiore “libertà” del mercato, con cui la preminente presenza pubblica in settori strategici e non, confliggeva. Questa stagione prese avvio in concomitanza ad alcuni fatti che resero caldissima la situazione politica e sociale italiana: 1) l’operazione giudiziaria “Mani pulite”, che stravolse completamente il quadro politico italiano portando alla sostanziale sparizione dei partiti che costituivano il cosiddetto Pentapartito; 2) gli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino; 3) l’attacco alla lira ed alle altre valute europee da parte di alcuni insider guidati dallo speculatore George Soros, che portarono ad una forte svalutazione delle stesse ed alla conseguente distruzione del Sistema Monetario Europeo (SME).

Nel gennaio del 1993 l’Executive Intelligence Review pubblicò un documento intitolato “La strategia anglo-americana dietro le privatizzazioni italiane: il saccheggio di un’economia nazionale”[1].  II 2 giugno 1992 si svolgeva una riunione semisegreta[2] tra i principali esponenti della City, il mondo finanziario londinese, ed i manager pubblici italiani, rappresentanti del Governo di allora e personaggi che poi sarebbero diventati ministri o direttori generali nei Governi AMATO, DINI, CIAMPI, PRODI, D’ALEMA (ma anche Berlusconi, per quanto riguarda la centrale figura di MARIO DRAGHI). Oggetto di discussione: le privatizzazioni.[3] Questa riunione si tenne a bordo del panfilo della Corona inglese, il “BRITANNIA”[4].

Alla luce di quanto il complesso finanziario-mediatico-politico va oggi chiedendo – le liberalizzazioni-privatizzazioni appunto – possiamo individuare almeno due fasi di questo progetto che possiamo chiamare “OPERAZIONE BRITANNIA”: la prima fase si occupò della svendita[5] dell’Iri, di Telecom Italia, Eni, Enel, Comit, Imi, Ina, Credito italiano, Autostrade, l’industria siderurgica ed alimentare pubblica; la seconda fase – in corso di attuazione – punta invece al settore della previdenza, della sanità, dei trasporti (ferrovie, trasporto pubblico di linea, trasporto navale, taxi), a quello delle utilities (aziende municipalizzate nei settori acqua, elettricità, gas) e ad altre funzioni di rilievo pubblico.

Se al livello dell’economia nazionale l’“Operazione Britannia” mette nelle mani di poche ricchissime famiglie ciò che prima era pubblico, con la dannosa conseguenza di diminuire le entrate dello Stato, i posti di lavoro e dunque il monte salari, creando così le condizioni per “riformare” in senso peggiorativo e non costituzionale il welfare (sanità, pensioni, giustizia, istruzione, ecc.), è sul superiore livello strategico internazionale che troviamo il grilletto che ha portato all’accelerazione di questa distruttrice fase della storia dello Stato sociale moderno. Attraverso la finanziarizzazione dell’economia mondiale, interi settori dell’economia reale vengono “cooptati” dal grande banco da gioco della finanza globale che per non crollare su sé stessa necessita continuamente di essere rifinanziata[6]. Una grande “catena di Sant’Antonio” a livello globale, dove il gioco finisce quando l’ultimo della catena resta col cerino in mano, svelando che si è trattato di un grande bluff dove i valori finanziari espressi non esprimevano vera ricchezza reale.

QUANDO LIBERALIZZARE SERVE SOLO A CREARE MONOPOLI PRIVATI:

Sono sotto gli occhi di tutti, eppure si fa fatica a prenderne coscienza, gli effetti delle liberalizzazioni-privatizzazioni. L’incapacità dell’uomo moderno a valutare i fenomeni per quello che sono è dovuta ad uno snaturamento della persona umana che da essere cognitivo e creativo è stata addormentata e limitata ad essere un soggetto meramente percettivo senza una propria capacità critica. Il complesso culturale dice che la neve è nera, e per la stragrande maggioranza delle persone la neve è nera.

La normativa di liberalizzazione in materia di commercio stilata durante gli anni ’90 – con particolare riguardo all’eliminazione dei vincoli di distanza per l’apertura di un’attività commerciale[7] – ha di fatto rappresentato la porta d’ingresso a poche grandi catene commerciali che si sono impossessate del 70% del mercato. Ciò ha comportato la moria delle piccole attività commerciali, i cui fondi su strada si sono trasformati o in locali sfitti o in piccole abitazioni.

L’istanza demagogica utilizzata per rendere meritoria agli occhi della popolazione la nuova normativa di liberalizzazione, era quella per cui tutti dovevano avere il diritto di trovare sotto casa il negoziante di scarpe piuttosto che di giocattoli. La normativa parlava di “una più capillare distribuzione dei prodotti sul territorio”. I prodotti invece hanno finito col concentrarsi in centri commerciali che hanno sostanzialmente preso il monopolio del mercato. Ovviamente di necessità di “una più capillare distribuzione dei prodotti sul territorio” ora non se ne parla più!

E’ poi assolutamente falsa l’idea per cui le liberalizzazioni portino ad un abbassamento dei prezzi. Mentre infatti le tariffe sono cresciute meno dei prezzi al consumo, i prezzi dei beni e dei servizi liberalizzati sono cresciuti costantemente più delle tariffe e dei prezzi al consumo.

 

  2002 2003 2004 2006 2006
aumento tariffe (al netto energetico) +0,1 +0,9 +0,9 +1,5 +1,6
aumento beni e servizi liberalizzati (al netto energetici) +3,8 +3,6 +2,6 +2,0 +1,9
prezzi al consumo +2,5 +2,7 +2,2 +1,9 +2,1

Fonte: Ministero dell’Economia e delle Finanze, L’economia italiana nel 2006, pag. 35.

La considerazione solitamente fatta è quella per cui, aprendo il mercato, aumentando l’offerta, i prezzi devono inevitabilmente scendere. In teoria dovrebbe funzionare proprio così, ma nella realtà dei fatti, non essendo possibile una concorrenza pura – tanto di meno se lasciata alle libere dinamiche di mercato – gli operatori più forti finiscono col “mangiare” gli operatori più deboli. Così se in una primissima fase la liberalizzazione produce aumento dell’offerta e diminuzione dei prezzi di erogazione del prodotto o servizio, già nel breve periodo si assiste a fenomeni di acquisizione da parte degli operatori più forti di quelli più piccoli, venendosi così a creare oligopoli (o addirittura monopoli), diminuendo così la concorrenza; a quel punto i prezzi tornano vorticosamente a salire. Ecco che i mercati che storicamente si sono dimostrati più efficienti sono quelli regolarizzati tenendo presente, come di fatto è nello spirito della nostra Costituzione, 1) il lavoro, 2) la qualità del servizio e prodotto erogato, 3) l’accessibilità al consumo. Non è infatti verosimile pensare che non tutelando primariamente i punti 1) e 2), al consumo possa derivare alcun vantaggio reale.

La normativa di liberalizzazione in materia di locazioni abitative, anch’essa stilata durante gli anni ’90 – con particolare riferimento alla l. 431/98 – ha fatto sì che i canoni d’affitto schizzassero alle stelle. Qui l’istanza demagogica utilizzata fu quella per cui non era giusto che il piccolo risparmiatore che per una vita aveva messo del denaro da parte per comperarsi una seconda casa, non potesse utilizzarla per la figlia appena coniugatasi, per causa di un’esosa normativa a tutela degli affittuari a cui erano concessi troppi anni di godimento dell’immobile prima dell’esecutività dello sfratto, e per di più pagando canoni troppo bassi. A causa di ciò, si diceva, la gente preferiva tenere sfitto l’immobile. Si fece allora passare l’idea che liberalizzando la normativa, gli immobili da affittare presenti sul mercato sarebbero aumentati, ciò comportando la riduzione dei canoni. E’ ovviamente successo l’esatto contrario.

Questi due esempi di normazione liberalizzatrice sono sintomatici di come le politiche di liberalizzazione inneschino meccanismi che portano al rafforzamento delle posizioni delle categorie più forti.

Altrettanto, un’iperburocratizzazione dei rapporti economici impedisce lo sviluppo dell’economia, ma l’eliminazione di fatto di ogni regola, la deregulation, fa sì che solo gli operatori più forti possano restare sul mercato. Ecco che ciò di cui vi è bisogno per far funzionare le cose in funzione del bene comune, è una migliore regolamentazione dei rapporti, di modo che ogni genere di operatore possa avere diritto a restare sul mercato in modo dignitoso.

LE PRIVATIZZAZIONI IN ITALIA DAL 1992[11]:

Per quale motivo agli inizi degli anni ’90 il tema principale della politica italiana divenne “privatizzare la pubblica impresa”?

Inizialmente la motivazione addotta era il forte debito pubblico e dunque la necessità di ridurlo. Gli interessi negativi che su di questo maturavano, rappresentavano (ed ancor oggi rappresentano) un gravoso peso per l’economia del nostro Paese. Tuttavia si consideri che dalle privatizzazioni il capitale racimolato fu, tra il ’92 ed il 2000, di 198.000 miliardi di lire (di questi, 87 mila miliardi sono relativi a privatizzazioni[12] propriamente dette, di cui oltre 55 mila miliardi ad aziende industriali). Il debito pubblico italiano nel 2000 era di 2.500.000 di miliardi di lire. Il debito pubblico dunque è stato ridotto appena del 7,92%. Tuttavia quel “ridotto” non corrisponde a verità se si considera che tra le aziende pubbliche vendute vi erano vere e proprie perle del capitalismo italiano (Comit, Credit, IMI, ma anche Eni, Enel, Telecom). Per cui se nell’immediato si sono avute delle entrate, fra l’altro irrisorie, per il futuro le scelte politiche hanno privato lo Stato di importanti entrate di cassa, nonché di assetti industriali che rappresentavano la spina dorsale dell’economia pubblica nazionale e del sistema di welfare che in parte si reggeva su essa.

Non risultando credibile la prima motivazione addotta alla “necessità” del processo di liberalizzazione-privatizzazione che si intendeva avviare, la motivazione ufficiale a giustificazione delle privatizzazioni divenne successivamente quella di favorire un azionariato diffuso.

Si può dunque rilevare immediatamente come il controllo dei cespiti industriali sia sostanzialmente passato dall’operatore pubblico a quello privato.

Anche questa seconda motivazione si dimostrò palesemente contrastare con la realtà dei fatti.

L’ultima giustificazione ufficiale alle privatizzazioni divenne allora quella di consentire il rafforzamento della grande industria italiana che doveva essere messa in condizione di affrontare e sostenere la competizione internazionale, al fine di consolidare gli assetti produttivi e occupazionali nazionali. A questo riguardo i casi Eni e Telecom sono sintomatici del fatto che pure queste motivazioni siano state pretestuose e mendaci. Eni per esempio dal ’92 al ’96 ha ridotto il personale del 33,5%, rendendo più inefficiente la gestione produttiva. A fronte di una riduzione dell’1,9% del costo del lavoro, i costi operativi sono comunque aumentati passando dal 72,6% al 73% dei ricavi.[13]

Anche tutte le altre aziende privatizzate hanno proceduto a tagli occupazionali e gli assetti produttivi, che già sotto la gestione pubblica erano molto efficienti, non ne hanno tratto giovamento di sorta. “All’incirca, metà delle imprese ha registrato un miglioramento e metà un peggioramento o una variazione pressoché nulla.”

Le privatizzazioni italiane che vanno dal 1991 al 2000 sono caratterizzate dal fatto che pur passando sotto ben dieci Governi, sono però state tecnicamente guidate da un’unica figura: l’attuale governatore della Banca d’Italia, MARIO DRAGHI, direttore generale del Tesoro fino al 2001.

I SINGOLI CASI AZIENDALI:

La prima fase di privatizzazione dell’Eni si ha nel 1995, dopo che l’azienda, sotto la gestione pubblica, registrò un utile record di 3.215 miliardi di lire.

Questa azienda è stata dunque privatizzata pur non rappresentando un “carrozzone” per la finanza pubblica, ma una vera e propria fonte di entrate costanti.

Dunque se la classe dirigente della “Prima Repubblica” puntò a riqualificare il ruolo dell’azienda pubblica, la classe dirigente della “Seconda Repubblica” si adoperò per dismetterla in favore di gruppi d’interesse privati.

GRAFICO Iri,Eni, ed Enel: debito pubblico indotto 1950-2000.

Se è ovvio che dal 1995, dunque in seguito all’avvio del processo di privatizzazione, il debito indotto è andato scemando, perché la curva del debito comincia ad innalzarsi solo a partire dagli anni ’70, con un’accelerazione dall’inizio degli anni ’80, e con risultati invece positivi nel ventennio precedente il 1970?

Per comprendere le motivazioni profonde di questa vicenda, dobbiamo concentrare la nostra attenzione sulle scelte di politica strategica fatte a livello nazionale ed internazionale.

In seguito all’assassinio di Enrico Mattei (1962) il nostro Paese interrompe la politica filo-industriale e per l’infrastrutturazione che aveva caratterizzato la strategia economica dopo l’avvio del piano Marshall. Il 15 agosto del 1971 per decisione unilaterale di Richard Nixon, vengono abbattuti gli accordi di Bretton Woods che fondati sulla convertibilità del dollaro in oro, sulla fissità dei cambi tra le valute (oscillabili solo all’interno di una forbice del +/-2,5%) e su un “codice d’onore”, aveva sino a quel momento garantito la stabilità del sistema monetario, finanziario ed economico mondiale. Successivamente a tale iniziativa, seguita nel marzo del ’73 dai paesi europei, scoppia la crisi petrolifera. Questi tre eventi (quello del ’71, quello del ’73 e lo “shock petrolifero”) sono uno correlato all’altro.

A metà degli anni ’70 l’Italia entra sotto la supervisione del Fondo Monetario Internazionale. Politiche di tagli alla spesa pubblica, di riduzione dell’import ed aumento dell’export, di apertura delle frontiere alla circolazione dei capitali, caratterizzeranno la politica del Fmi per oltre trent’anni, sempre con i medesimi risultati: la distruzione della capacità produttiva, la distruzione dello stato sociale, la riduzione della capacità d’acquisto reale delle fasce medie e basse di reddito. Queste esperienze verranno ripetute dal Fondo in America Latina e nel Sud-est asiatico. I risultati saranno però sempre gli stessi.

Nel 1981 su presumibili pressioni della comunità finanziaria internazionale, l’Italia procede alla cosiddetta “denazionalizzazione” della Banca d’Italia. La banca centrale viene nettamente separata dal Ministero del Tesoro, in ossequio al dogma liberista della necessaria indipendenza dell’istituto bancario. Così i tassi di sconto sul debito pubblico non sono più decisi dallo Stato, ma dal mercato. Così se nel ventennio precedente si era proceduto a distruggere parte della capacità produttiva del Paese, nel 1981 viene piantata la radice dello scoppio del debito pubblico italiano, che negli anni successivi rappresenterà il pretesto per la progressiva distruzione dello stato sociale in Italia.

Lo studio parlamentare sulle privatizzazioni afferma:

“[…] il saldo di cui sopra [7500 miliardi di lire] è in buona sostanza il risultato della differenza tra il rilevante indebitamento generato dalla siderurgia (26.500 miliardi circa) e il consistente rimborso reso possibile dalla vendita delle telecomunicazioni (20.600 miliardi circa); rammentando quanto esposto nel paragrafo precedente, occorre dunque concludere che, in primo luogo, l’effetto più importante sul debito pubblico è venuto dalla cessione delle quote di minoranza di Eni ed Enel, più che dalle privatizzazioni; in secondo luogo, queste ultime paiono essere servite più a trasferire responsabilità di gestione che a raccogliere finanza con cui rimborsare debito pregresso.”

Pur concordando con tali affermazioni, che possiamo riassumere affermando che le liberalizzazioni-privatizzazioni non hanno fatto altro che consentire il trasferimento di ciò che prima era in mano pubblica – dunque di proprietà dei cittadini attraverso lo Stato – ad alcune poche mani private, da un punto di vista strategico-economico, in merito alla forza strutturale di lungo termine, le privatizzazioni hanno prodotto anche il nefasto risultato di segnare per il nostro Paese forse l’ultimo passo del processo di deindustrializzazione avviato un trentennio prima. Per comprendere il salto qualitativo fatto con il 1992, si potrebbe dire che si è passati da un generale processo di deindustrializzazione anche ad uno specifico processo di destatalizzazione.

Con lo slogan per cui ‘il pubblico non funziona ed il privato funziona meglio’, si sono messi nelle mani di alcuni privati, importanti settori strategici come quello bancario ed assicurativo, delle telecomunicazioni, siderurgico ed alimentare. Il processo oggi mira a radicalizzare questa privatizzazione anche sul fronte energetico e di altri importanti settori pubblici di rilievo sociale (previdenza, sanità, istruzione, trasporti).

Finora questi privati non hanno saputo fare meglio del pubblico, anzi hanno inciso sull’economia fisica in modo decisamente negativo, tagliando posti di lavoro e chiudendo impianti produttivi.

Infine, affermare che il processo di liberalizzazione-privatizzazione ha riguardato primariamente l’industria pubblica in difficoltà è un falso, in quanto il 64,8% delle aziende privatizzate appartiene ai settori bancario-assicurativo e delle telecomunicazioni[19], finanziariamente remunerativi già sotto la gestione pubblica.

UN CASO EMBLEMATICO CHE BUTTA GIU’ LA MASCHERA: IMI.

La privatizzazione dell’IMI non è sicuramente avvenuta per inefficienza gestionale, in quanto essa registra oltre 60 anni di bilanci positivi; nel 1992 l’esercizio si è chiuso con un attivo di 443 miliardi di lire, il 30 settembre 1993 risultavano 376 miliardi di utili con una previsione per l’esercizio di oltre 500 miliardi di lire.

L’IMI poteva dunque essere considerata come uno dei gioielli del patrimonio pubblico italiano.

Fino al 1994 il 50% del capitale della società era posseduto direttamente dal Ministero del Tesoro, mentre il 9,27% era posseduto indirettamente attraverso la partecipazione della CONSAP (Società posseduta Integralmente); inoltre il 3,22% del capitale era degli enti INAIL e INPS[21]. Queste partecipazioni in una società che genera costantemente utili volevano dire in concreto entrate costanti per il welfare. In seguito alla vendita della terza tranche, “il Tesoro possedeva ancora 6.796.285 azioni dell’IMI, pari all’1,13% del capitale sociale. Tale quota è diminuita a seguito dell’assegnazione delle bonus share della prima tranche e per effetto della fusione per incorporazione dell’IMI nel Gruppo San Paolo”[22]. Se con la vendita della prima tranche il 45,7% del pacchetto azionario immesso sul mercato è finito in mano straniere, con la vendita della terza tranche a finire in mani straniere è stato il 57,4% del relativo pacchetto azionario (di cui il 37,2% ad istituti anglo-americani).

NEL FRATTEMPO I POLITICI SI GIOCANO COMUNI E REGIONI AL CASINO'[23]

L’orgia speculativa che si è impossessata dell’economia reale, del lavoro e della vita della gente, si è impossessata pure delle istituzioni pubbliche. La distruzione dello Stato sociale che va attuandosi per causa della distruzione dell’industria nazionale e più in generale dell’economia fisica, arriverà alla più ampia distruzione dello Stato nazionale. Infatti, stupidi e corrotti amministratori pubblici si sono seduti al tavolo da gioco organizzato dall’oligarchia finanziaria operante attraverso il sistema bancario. I derivati finanziari, ossia quelle scommesse speculative che vedono coinvolte tutte le istituzioni bancarie del pianeta, hanno invaso i bilanci degli enti pubblici. 900 enti pubblici hanno nel proprio bilancio strumenti derivati per 10,5 miliardi di euro..

Così, tanto per rendere l’idea, il Comune di Torino sta perdendo con JP Morgan 14 milioni di euro sui contratti speculativi dei derivati finanziari. JP Morgan ha avuto come suo consulente l’attuale ministro Linda Lanzillotta, fautrice inesauribile delle liberalizzazioni, la quale ha affermato di aver aiutato la banca a comprendere come funzionano i bilanci pubblici. Il Comune di Taranto è invece fallito tout court per causa delle operazioni in derivati. I soldi delle tasse pagati dai cittadini di Taranto così passano brevi manu alla Bnl con cui il Comune si era esposto. Il Comune non ha così i soldi per pagare le retribuzioni dei dipendenti e neanche il mantenimento dei servizi ai cittadini. Per l’attuale modello culturale del liberismo, il contratto di credito prevale sul contratto sociale.

FAR CIRCOLARE LA VERITA’! PER L’AZIONE POLITICA E SINDACALE, MA SOPRATTUTTO PER L’AZIONE DEI CITTADINI:

Durante la fase di piena espansione dell’economia italiana (anni ’50-’60) la capitalizzazione di borsa incideva sul p.i.l. neanche per un 10%. Questo valore in tempi di declino economico è passato al 70%.

Tuttavia lo stesso studio parlamentare consente, alla luce comunque di un errato modo di concepire l’economia, di poter valutare la capacità del settore privato come non performante rispetto a quello pubblico, almeno sul fronte di settori strategici come lo erano quelli oggetto di liberalizzazione-privatizzazione.

Lo studio infatti afferma:

“Una possibilità, a fini puramente indicativi, è quella di immaginare un investitore che abbia ripartito equamente i suoi investimenti tra tutte le emissioni [delle aziende privatizzate], indipendentemente dalla loro dimensione complessiva. […] In tal caso, il rendimento sintetico può essere espresso attraverso la media semplice dei rendimenti dei singoli titoli. Il risultato di questa media è … inferiore di oltre il 40% a quello ottenibile dalla media delle blue chips [i titoli principali della borsa italiana]. Ciò significa che il risparmiatore avrebbe trovato più conveniente acquistare tutti i titoli guida (in proporzione alla loro dimensione) piuttosto che aderire in egual misura alle offerte di titoli pubblici via via proposte.”

Il rendimento dell’indice generale di titoli italiani Mibtel (nel grafico riportato con linea continua) è poi costantemente stato superiore rispetto alla media dei titoli delle aziende privatizzate (nel grafico riportata con linea tratteggiata).

Ciò significa anche che se la redditività di queste aziende passando dalla mano pubblica a quella privata non è aumentata, non è certo dovuto ad una particolare fase negativa dello scenario economico italiano, avendo altre aziende nello stesso periodo performato meglio.

In considerazione di questi dati la liberalizzazione-privatizzazione dei servizi pubblici locali, delle così dette municipalizzate, di aziende come la Tirrenia o come le ferrovie, rischia di innescare meccanismi di concorrenzialità che confliggono con quelli che sono gli obiettivi primari – l’interesse collettivo nonché la continuità e qualità del servizio, la diffusione sull’intero territorio nazionale – che obbligatoriamente uno stato civile deve perseguire. E’ allora da ritrovare il giusto angolo visuale nella valutazione dell’operatività di questi servizi. La tratta marittima per l’isola di Pianosa, così come quella ferroviaria per Donoratico, saranno tratte a rimessa, perché il costo fisso di tratta sarà più alto del compenso ricevuto da quei dieci viaggiatori a cui però uno Stato civile e sociale deve garantire l’accesso al servizio. Qui mancherà la remuneratività finanziaria, ma sarà pienamente perseguita la remuneratività sociale. La tratta navale per l’isola d’Elba o quella ferroviaria per Milano, saranno invece finanziariamente remunerative. Le società private che vanno costituendosi – si pensi a quella che vede Montezemolo e Della Valle come soci di maggioranza – puntano invece ad accaparrarsi, com’è ovvio che sia per chi è dedito al profitto, le sole tratte a maggior remuneratività. Se tutti fanno così è ovvio che allo Stato restano le tratte finanziariamente sconvenienti, ed ecco che quello che era un problema finanziario, cresce esponenzialmente.

Dunque, il modo di guardare tali questioni da parte del pensiero liberale si pone fuori dello Stato sociale voluto dai nostri costituenti.

Alla luce di questi dati chi ancora oggi parla di liberalizzazioni e privatizzazioni come sistemi per la soluzione dei problemi economici e sociali che affliggono il nostro Paese è o un traditore del popolo italiano o più semplicemente un ignorante. In ogni caso ci troviamo di fronte a persone che non hanno niente a che fare con la complessa arte politica che mira al perseguimento del Bene Comune.

Le liberalizzazioni si sono dimostrate la porta di ingresso ai processi di ristrettissima concentrazione privatistica di ciò che prima era pubblico o comunque diffuso e parcellizzato tra una vastissima pluralità di imprenditori.

Il paradosso è che dopo avere distrutto l’industria nazionale e posti di lavoro altamente qualificati, ora si pretende che la cittadinanza accetti supinamente la distruzione del sistema di welfare che dal ’48 ai primi anni ’70 si era andati costruendo.

Dallo Stato sociale dell’universalismo dei diritti, si è passati dunque – per via contingentata e non per nuova illuminata acquisizione della civiltà – allo Stato sociale che si occupa esclusivamente dei bisogni degli strati più poveri della popolazione.

RIEPILOGANDO, IL QUADRO CHE ABBIAMO DI FRONTE E’ IL SEGUENTE:

  • a) A manifesta violazione del dettato costituzionale, sono venute meno, a tutto vantaggio dello scopo lucrativo, la funzione sociale dell’iniziativa economica e della proprietà privata, così come l’azione di rimozione degli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana che l’art. 3 della Costituzione impone alla Repubblica.
  • b) Conseguentemente al venir meno della mission per cui i nostri padri costituenti si riorganizzarono dopo il fallimento dell’esperienza dello stato liberale ottocentesco, sfociato nei totalitarismi, l’azione politica (ma anche sindacale) è divenuta ossequiosa a fronte delle esose e capricciose richieste delle oligarchie finanziarie che nel corso degli anni sono tornate a subordinare a sé la dimensione politica, grazie ad un disonesto utilizzo dei media ed alla debolezza morale della classe politica.
  • c) Questo processo passa per la distruzione delle funzioni produttive e di necessaria difesa dell’interesse generale che allo stato attuale si concretizza ancora con la tutela del lavoro, nonché della capacità nazionale di riconoscere diritti fondamentali (welfare) sempre più ampi. Tale processo è passato prima per una generica deindustrializzazione e deinfrastrutturazione del Paese, poi per la più specifica dismissione dell’impresa pubblica, regalata all’oligarchia finanziaria.
  • d) La procurata distruzione della capacità produttiva nazionale e del monte salari, a tutto vantaggio della speculazione finanziaria, ha ridotto i flussi di entrata dell’erario, rendendo complicato il sostentamento della spesa pubblica e delle peculiari funzioni di welfare che caratterizzavano lo Stato sociale moderno, implicando un anacronistico ritorno ai processi del riformismo verso il basso.
  • e) Il processo innescato vede il formarsi di sempre più imponenti concentramenti di capitali in pochissime mani, di cui il fenomeno delle continue fusioni tra imprese non è altro che la più manifesta dimostrazione; corrispondentemente la percentuale degli stipendi sul p.i.l. è in costante diminuzione e quella dei profitti sul p.i.l. in constante aumento.
  • f) Tutto ciò porterà all’inevitabile implosione degli Stati-nazionali, avviando nuove forme di impero, così come preconizzato dai teorici utopisti del Governo unico mondiale.

Gli amministratori politici e sindacali purtroppo si stanno muovendo su dei binari che portano dritti verso il baratro.

C’è da invertire un processo, ma non possiamo certo aspettarci che a farlo sia chi fin qui ci ha portato. . Purtroppo non è più questo il tempo in cui finita la giornata lavorativa ci si può esclusivamente dedicare ai “propri” interessi. Si impone un’azione di denuncia di queste realtà e di annuncio della verità.

Far circolare la verità diventa la nuova missione del cittadino del nostro tempo.

— Claudio Giudici (Movimento Internazionale per i diritti civili – Solidarietà).

 

NOTE:

[1] https://www.movisol.org/draghi4.htm.
[2] Recentemente il Presidente Francesco Cossiga, l’ha definita “semi-cospirativa”, www.adusbef.it/consultazione.asp?Id=6304&T=P.
[3] “E’ curioso notare che i parlamentari che fecero interrogazioni su quell’inchiesta e chiesero notizie, non furono più ricandidati. Me lo diceva una di loro, Michele Rallo di An, all’epoca deputato e componente della commissione parlamentare finanziaria. Si vede che occuparsene portava sfiga.” M. Veneziani, Libero, 30 gennaio 2006. Tutto l’articolo è visualizzabile a https://ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=2008.
[4] Da notare dunque che una riunione che riguardava la situazione economica italiana venne tenendosi su territorio inglese, in quanto il panfilo batteva bandiera britannica.
[5] Si deve parlare di svendita perché la vendita dell’industria nazionale avvenne dopo l’attacco speculativo alla lira italiana del settembre ’92 e che portò la moneta italiana a svalutarsi di circa il 30%. Quelle aziende furono dunque acquistate ad un valore inferiore di almeno il 30%. Anche su questo evento, che non deve essere considerato accidentale ma come rientrante in una strategia coordinata, il Movimento Internazionale per i diritti civili – Solidarietà fece un esposto in sede giudiziaria; https://www.movisol.org/soros1.htm.
[6] Durante il World Economic Forum tenutosi a Davos nel gennaio scorso l’economista Nouriel Roubini ha affermato che l’attuale crisi finanziaria è sistemica, e che la politica di creare bolle speculative non potrà più funzionare. Questo genere di denuncia è elemento portante nella concezione economica dello statista americano Lyndon LaRouche, il quale è oramai decenni che avverte sull’inevitabile distruzione degli stati-nazionali, alla luce del paradigma dominante l’odierna economia mondiale.
[7] In seguito al decreto Bersani d. lgs. 114/98, gli enti territoriali hanno proceduto a modificare la normazione in materia di commercio. Nel solo biennio e 2000-2002 si è assistito in Lombardia ad un aumento del 25%, in termini di presenza, delle grandi catene distributive; https://www.provincia.mantova.it/att_produttive/piano/allegato2.pdf. Si può verosimilmente pensare per le piccole attività commerciali ad una riduzione dei ricavi, tenendo anche conto della contrazione della capacità di consumo della popolazione italiana. Si precisa che questo dato è relativo al solo biennio 2000-2002.
[8] https://www.infocamere.it/doc/3_2007c.pdf.
[9] Si vedano i due seguenti rapporti: https://www.unioncamere.it/images/stories/documenti/doc/allegati2/Comunicati_stampa/com_extraue_2007.doc e https://www.infocamere.it/doc/2007c.pdf.
[10] https://www.lavoce.info/articoli/pagina404.html.
[11] Le privatizzazioni in Italia dal 1992, 2000, Commissione bilancio della Camera dei Deputati. E’ questo il titolo dello studio parlamentare ad hoc sul processo di privatizzazioni in Italia. Da qui in poi il virgolettato sarà usato per i riferimenti testuali allo studio parlamentare.
[12] Lo stesso studio parlamentare distingue tra “privatizzazioni” e semplici “smobilizzi”. “… si indicheranno come “smobilizzi” le vendite di quote di partecipazione in società (qualunque sia la loro misura), di rami aziendali e di cespiti; il termine “privatizzazioni” sarà invece usato per indicare la cessione al settore privato (singoli acquirenti o mercato finanziario) del controllo di una società o di un ramo aziendale. Conseguentemente, un’impresa viene considerata privatizzata se e quando lo Stato, direttamente o indirettamente, non ha più il potere di nominare l’amministratore delegato (pur mantenendo “poteri speciali”, la cosiddetta golden share). Questa definizione porta quindi ad escludere dal novero delle privatizzazioni talune importanti imprese, quali ENI ed ENEL, AEM ed ACEA, per le quali il processo di cessione ai privati non è completato oppure non è previsto.” Ibidem, pag. 22.
[13] Questi dati sono stati rilevati da https://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=21&var.
[14] “Initial Public Offering (offerta pubblica di vendita di azioni di prima quotazione).”
[15] “Il record per uno smobilizzo spetta all’OPV realizzata nel novembre 1987 con azioni della giapponese NT&T, la quale tuttavia è ancora oggi a controllo pubblico.”
[16] E’ questa la definizione usata dal prof. Jeffrey Saschs, quando come dirigente del Fondo Monetario Internazionale, prese le redini del processo di trasformazione delle economie ex socialiste in Europa, in economie di libero mercato.
[17] “Secondo l’accordo, il debito doveva essere ricondotto a ‘livelli fisiologici, cioè a livelli accettabili per un investitore privato operante in condizioni di economia di mercato’”.
[18] https://www.carta.org/rivista/settimanale/2004/12/12Calabria.htm.
[19] Dati Ocse.
[20] In riferimento al Mezzogiorno ricaviamo l’ennesima conferma al fatto che con l’inizio degli anni ’70 si sia avuto il giro di boa che ha portato l’economia italiana (ma più in generale tutta quella occidentale) da un’economia industriale e produttiva ad un’economia post-industriale (nell’accezione negativa del termine) ed improduttiva. Se infatti il rapporto degli investimenti fatti nel Mezzogiorno e quelli complessivamente fatti in Italia (attraverso le Partecipazioni Statali) fu in costante crescendo dal ’60 al ’72 passando dal 26% al 54%, successivamente sotto la supervisione del Fondo Monetario Internazionale scese progressivamente (1974 al 38%, 1975 al 37%, 1977 al 30%, 1979 al 31%, 1980 al 35%).
[21] Questi dati si ricavano dal Prospetto informativo IMI, gennaio 1994.
[22] Libro bianco sulle privatizzazioni, Ministero del Tesoro, del bilancio e della programmazione economica, 2001, pag. 32.
[23] https://www.rai.tv/mpplaymedia/0,,RaiTre-Report%5E23%5E37208,00.html.
[24] Anche in merito al sistema pensionistico e previdenziale, una vera e propria dittatura della menzogna prevale sulla verità dei fatti. A questo proposito si rimanda ad una serie di pubblicazioni presenti sulla rete:
https://www.proteo.rdbcub.it/stampa.php3?id_article=264;
https://www.movisol.org/07news110.htm;
https://www.rete28aprile.it/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=1137;
https://www.comune.bologna.it/iperbole/coscost/newsita/Gallino_pensioni.pdf.
[25] Nel 2007 nella provincia di Firenze la cui economia è prevalentemente turistica, il settore della somministrazione alimentare ha segnato un saldo negativo di -84 attività.
[26] Il 26 ottobre 2007 tutte le principali testate giornalistiche riportavano l’affermazione del Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, per cui sarebbero “troppo bassi i salari in Italia”.
[27] Mozione Lettieri ed altri, n. 1-00320 “Sulla convocazione di una conferenza internazionale per un nuovo sistema monetario e finanziario”, https://www.movisol.org/nbw6_4_05.htm.
[28] https://www.movisol.org/nbwbreve.htm.

Fonte: Qui il Link della fonte originale dove si trova il documento originale completo dei grafici (con ripettive fonti) omessi dal copia/incolla  https://archive.movisol.org/privatizzazioni.pdf

 

 

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